Umberto Galimberti e la religione del cielo vuoto
Già il titolo si presta a mille considerazioni. Ma in primis, Galimberti ha sottolineato come non vi fosse nulla di offensivo o di denigratorio nelle sue intenzioni. La gente ha perso il senso del sacro, afferma, e questa in qualche modo è stata una fortuna. La parola “sacro” viene dal sanscrito e in origine aveva il significato di “separato”.
Separare, dunque, dal profano. Ma in effetti, il sacro è, nella sua forma pura, confusione dei codici e l’uomo, per risolvere queste oscillazioni di significato, si sarebbe nei secoli affidato alla Ragione, via di fuga dalla confusione, ergo dal sacro. Il sacro è, nella speculazione di Galimberti, la grande rappresentazione della confusione dei codici e quindi della “follia”.
Noi ci crediamo ragionevoli ma siamo sempre esposti alla follia. Si pensi a quando dormiamo: essa si palesa attraverso il sogno, il vero teatro della follia. Ma in qualche modo, quest’oblio di significato diviene proprio sostrato della nostra ragionevolezza permettendo all’uomo di caratterizzarsi. La ragionevolezza, in sé, ci fa tutti uguali.
Galimberti fa un interessante excursus del “sacro” partendo dalla filosofia classica greca. Già Platone, parlando di Amore, lo rintraccia proprio dove sussiste un’insufficienza del linguaggio, non essendo il linguaggio razionale in grado di entrare nella sfera del sentimento.
Nella storia, l’uomo ha tentato di ordinare la follia insita nel sacro e l’ha fatto attraverso la Religione. La parola deriva dal latino “religare”, cioè “legare, vincolare”, nel significato di legare l’uomo alla divinità. Essa ha quindi il dovere/onere di circoscrivere l’area del sacro che di per sé è senza regole. La ragione infatti, afferma Galimberti, non sarebbe un argine abbastanza forte per la follia. Si pensi agli innamorati che non riescono mai ad andare oltre una certa soglia di ragionevolezza.
Da qui la necessità di un ulteriore filtro, quello religioso, attraverso cui la dimensione del sacro viene assettata nella dualità Dio – Satana e nella certezza di un Dio che nella sua misericordia sacrifica il proprio figlio per la salvezza dell’uomo.
Galimberti fa coincidere il Cristianesimo con l’Occidente: «Nell’Occidente tutto è cristiano». La criticità risiede però nella graduale desacralizzazione occidentale che si emancipa dal Cristianesimo, ridotto a mera regolamentazione etica.
Per spiegare quest’immanenza della religione di Cristo in Occidente, Galimberti porta l’esempio del concetto di “storia”. Un’astrazione sconosciuta fino all’avvento della Chiesa: i greci concepivano tutto in divenire. Con il Cristianesimo invece si assiste alla separazione tra Passato, Presente e Futuro, dove il Passato è visto in negativo, come il Peccato originale, il Presente è la Redenzione e il Futuro è Salvezza. È questo un modus pensandi che si trascina fino a noi in ogni ambito, fino addirittura alle scienze.
La svolta si avrebbe a fine ‘800 col nichilismo nietzschiano: «Dio è morto», ma questo presupporrebbe che prima fosse vivo e che creasse il mondo. e in fondo, come potrebbe concepirsi un’età come quella medievale senza Dio?
Oggi invece si assiste ad un capovolgimento: il futuro non è più salvezza. È il trionfo del nichilismo in quanto assenza di scopo e le risposte ai perché e i valori tutti si svalutano. Il nichilismo emerge nella sua forma pura quando una società fondata su certi valori, vede questi cadere e non ne sorgono altri a sostituirli.
L’Occidente cristiano non è in grado di garantire un futuro: «una terra finita non può ospitare una crescita infinita» ed è necessario che il resto del mondo si emancipi.
Se Amore e Carità sono i concetti che distinguono il Cristianesimo dalle altre due grandi religioni monoteiste, Galimberti si chiede dove sia questa Chiesa dell’Amore e se essa possa mantenersi in piedi senza la Chiesa del Potere.
Gli stessi dialoghi con le altre religioni sono ipocrisia perché se ogni fede parte dalla presunzione di detenere la Verità assoluta non può interloquire a meno che non ammetta che l’interlocutore sia in possesso di una verità in più.
Il libro di Galimberti si chiude con una domanda socratica: cos’è la Tecnica? Essa sarebbe «condizione universale per realizzare qualsiasi cosa». È la forma più alta di razionalità raggiunta dall’uomo secondo il principio del massimo risultato col minimo dispendio di mezzi. La tecnica è più razionale anche dell’economia in quanto anche quest’ultima racchiude in sé una passione che è quella del “denaro”.
La Tecnica, invece, è avulsa da tutto ciò ed è diventata tratto essenziale dell’Occidente: gli occidentali sono i più tecnici in assoluto e i più tecnicamente assistiti. Tanto da essere i più deboli e asserviti, perciò, alla tecnica che diventa scudo. L’era della Tecnica ci chiede solo di essere dei buoni lavoratori con la sola responsabilità di compiere le azioni previste nel proprio “mansionario”.
Dei moderni Chaplin in Modern Times, quindi, in balia di avveniristici ingranaggi digitali.
da www.corrieresalentino.it